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«Rivali». La natura dello sport secondo L’Ultimo uomo

Ali-Frazier, Borg-McEnroe, Maradona-Pelè e gli altri: dieci storie di rivalità nello sport che toccano le corde della società, della politica e della leggenda, edite da Einaudi.

«Mi accorsi che delle due nature che si contendevano il campo della mia coscienza, se potevo a buon diritto dire di essere l'una oppure l'altra, ciò era dovuto soltanto al fatto di essere fondamentalmente sia l'una che l'altra».

È il 1885 e lo scrittore scozzese Robert Luis Stevenson, già famoso per L’isola del tesoro, dà alle stampe un romanzo breve destinato a diventare un caposaldo della letteratura e dell’immaginario occidentale: è Lo strano caso del Dr. Jekyll e del signor Hyde, il bene e il male in un’unica persona, il doppio divenuto ormai proverbiale nella vita di tutti i giorni.

E chissà che la redazione di «Ultimo uomo» non abbia pensato anche a Stevenson nell’ideare i testi di Rivali. Storie leggendarie che hanno cambiato lo sport (Einaudi, 2022).

Dieci storie di sport, dieci coppie di personaggi che siamo abituati a vedere dalle parti opposte di un ring, di un campo da tennis, nelle corsie di una piscina o nel pantheon ideale dei tifosi: eppure, opposti che sono tenuti insieme in maniera indissolubile da un unico grande motore, la competizione. Anche se tutti sappiamo che ogni sport, anche individuale, è frutto di un lungo lavoro di squadra e di dettagli, siamo così abituati a ragionare per semplificazioni e rivalità che ci accendiamo se riusciamo a riconoscere i nostri schieramenti, i nostri Achille contro Ettore.

I greci le chiamavano aristeiai, quelle scene di guerra in cui, nel mezzo degli schieramenti nemici, tutto era incentrato sul duello tra gli eroi più forti: destinati per natura allo scontro, laddove non sempre chi viene sconfitto viene ricordato meno del vincitore.

E allora nella scelta delle loro aristìe, le firme di «L’Ultimo uomo» non hanno ceduto alla facilità di alcuni contrasti su cui tanto si è scritto e si scriverà (Messi e Ronaldo, Coppi e Bartali, Johnson e Bird): come nel loro stile, vanno a cercare storie e personaggi che dicono qualcosa di nuovo per i lettori, senza escludere la storia e la società. E quindi trovano spazio icone come Ali e Frazier (raccontate da Daniele Manusia), in una vicenda che ci parla degli anni Settanta, del razzismo e delle lotte contro le discriminazioni, di come i media aiutino a creare il mito della rivalità; due maschere in una trilogia che, però, ha a che fare con la resistenza e col sangue.

Non potevano mancare Borg e McEnroe (Emanuele Atturo), gli eterni sfidanti del tennis che hanno meritato anche un celebre film uscito nel 2017: nella loro diversità, nell’impossibilità di scegliere chi fosse il migliore, due tennisti legati a fil di rete l’uno con l’altro. Un filo, invece, che si è spezzato a Imola in quel tragico primo maggio del 1994, quello che legava Ayrton Senna ad Alain Prost (nelle righe di Alfredo Giacobbe), il francese compagno di squadra, nemico, confidente: quel motore che spingeva il brasiliano a dare di più, al punto da chiedergli insistentemente di tornare a gareggiare dopo il suo ritiro del 1993.

Ci sono le storie meno note di Enzo Maiorca e Jacques Mayol (Marco D’Ottavi), campioni d’apnea ed emblemi della diversità; quando lo sport era letteralmente arrivare al limite, pur di resistere un secondo in più dell’altro; i “dieci” di Nadia Comaneci e quelli, un po’ dimenticati, di Nellie Kim (Tiziana Scalabrin), in una competizione che intreccia perfette esecuzioni a storie imperfette, come gli scandali della ginnastica artistica o l’Unione Sovietica ai tempi della guerra fredda. Ancora, tra le pagine del volume si legge della rivalità forse più celebre del tennis femminile, che interessa l’eterno dilemma sullo sportivo come role model: come a Wimbledon nel 1970, Margaret Court e Bille Jean King (di cui scrive Elena Marinelli), hanno rappresentato due modi opposti di intendere lo sport, il femminile, la società. L’eterna dialettica tra conservazione e progresso, perno su cui va avanti la nostra società, vista a partire dal prato verde, da due racchette e da una palla.

Se Ettore e Achille erano perfettamente opposti, non sempre le rivalità sono in equilibrio. Quello che non avrebbe potuto esistere tra Phelps e qualunque avversario nelle corsie delle vasche olimpiche, se non ci fosse stata la tenacia e la sfrontatezza di Le Clos (Dario Saltari). Da una parte il desiderio di inseguire e battere il migliore, come a Londra del 2012, dall’altra lo stimolo per ottenere una rivincita a suon di centesimi di secondo, come avvenne a Rio nel 2016. E poiché non c’è vincitore senza un rivale sconfitto, forse non avremmo visto il massimo da uno come Bolt senza l’eterno rivale Gatlin, il più veloce dei terrestri (ne scrive Tommaso Giagni): l’obiettivo era quello di «tirare fuori da lui il miglior atleta, come lui fa lo stesso per me». Uno scambio reciproco tra fenomeni, concluso nella maniera più sorprendente: quando Gatlin rovinò la corsa d’addio del jamaicano, battendolo nei 100metri ai Mondiali di Londra del 2017. Era il 5 agosto, e dopo il suo 9.92’ l’americano scelse comunque di inchinarsi ai piedi di chi l’atletica l’aveva cambiata.

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La copertina di "Rivali", edito da Einaudi

Rivali fuori dal campo, leggende del pallone

E così, dopo tanti duelli, le pagine del libro lasciano spazio a dei rivali che più che sul campo si sono scontrati nella storia e nell’immaginario. Sulla domanda su chi fosse più forte tra Maradona e Pelè si sono arrovellate generazioni di famiglie, e noi in Italia abbiamo sentito per anni il celebre coro dei napoletani. È probabile che oggi nessuno possa aver visto giocare entrambi i giocolieri del pallone per dare una risposta: restano i numeri (spesso incerti), qualche video, i ricordi dei testimoni; resta il ricordo nella memoria del calcio. Il capitolo di Rivali scritto da Fabrizio Gabrielli cerca di esplorare ancora questo eterno dualismo, che diventa politico più che calcistico: con un pizzico di quella fantasia che ben si addice al mondo sudamericano.

Dalle leggende del calcio a quelle del basket. Il libro è aperto da una grafica di Stefano Marra che raffigura un uno contro uno tra due, uno in maglia rossa che attacca di fronte uno in maglia gialla in difesa. A chiudere il cerchio, una rivalità che è stata soprattutto un’ossessione: Michael Jordan e Kobe Bryant, nel punto di vista di Dario Vismara. L’NBA è una questione di legacy, l’eredità dei giocatori più forti e rappresentativi: da Jerry West a Chamberlain e Abdul-Jabar, da “Dr. J” Erving a Magic Johnson e Larry Bird, per arrivare a MJ, il Goat che ha rivoluzionato non solo il gioco e le sue altezze, quanto soprattutto l’idea stessa della star dello sport (soprattutto nei media e nel mercato). 

Era il 1997, e un ragazzino sfrontato mostrava al mondo come persino quell’eredità così pesante poteva essere raccolta. Mentre Jordan vinceva i suoi ultimi titoli prima del secondo, e non ultimo, ritiro, Kobe cominciava a stupire il mondo con un chiodo fisso: quello di essere il prossimo Michael. Coprire lo stesso ruolo in campo e avere fisico e talento simile non bastava: serviva essere, pensare, vivere come lui. Come un’aristeia, dentro il campo ogni giocatore sembrava sparire per lasciare la scena allo scontro tra due fenomeni. Da quella volta che Kobe si fermò per chiedere dei consigli tecnici all’avversario, nacque un rapporto di profonda amicizia, completa condivisione. Quella che esiste tra chi è fatto della stessa natura: stessi movimenti in campo, stessa mentalità, stessa voglia di allenarsi più degli altri, anche all’alba di ogni mattino; stesso rapporto complicato con i compagni di squadra. Quella ossessione di essere come il rivale si era trasformata in una nuova legacy, ancor più difficile da raccogliere perché doppia. Di nuovo, due facce della stessa medaglia.

In una prosa avvincente, che mai scade nella banalità del linguaggio, le voci dell’ «Ultimo uomo» tracciano una serie di linee che dallo sport arrivano a toccare le sfere della cultura, della politica, della società, del nostro modo di essere. Altre rivalità, chissà, potranno essere raccontate (Federer e Nadal, Lebron e Curry, Pellegrini e Manadou), sempre nella convinzione che lo sport, quello più sano, vive nell’opposizione tra un vincitore e uno sconfitto. Diversi, quasi opposti, ma legati da un misterioso legame. Uno non esiste senza l’altro, proprio come Dr. Jekyll e Mr. Hyde:

«Era la maledizione del genere umano che simili incompatibili fascine fossero legate insieme – che nel grembo tormentato della coscienza questi antitetici gemelli dovessero continuamente scontrarsi. Come, allora, potevano essere separati?».


Andrea Sciretti

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