Nel 1963, 16 anni dopo Se questo è un uomo, Primo Levi raccontò l'odissea del ritorno in Italia dopo l'entrata dei russi ad Auschwitz: e nella sua Tregua trova spazio per una partita di calcio.
A volte lo sport può segnare un ritorno alla vita, a una normalità agognata e quasi insperata. Lo sanno bene gli organizzatori dei Giochi Olimpici di Londra 1948, a 10 anni da quelli di Berlino che segnarono il trionfo della propaganda nazista, con le due successive edizioni annullate per il perdurare della guerra. Lo sa bene la nostra Serie A, non giocata nel biennio 1943-1945, quando l'Italia era campo di battaglia. Ciò che successe persino al Giro d'Italia, sospeso dal 1940 al 1945 per lasciar spazio, più che alle salite di Coppi e Bartali, alle discese dei carrarmati.
La vittoria e la pace furono festeggiate anche in altro modo, che per poco, indirettamente, non mi doveva costare assai caro. A metà maggio ebbe luogo un incontro di calcio fra la squadra di Katowice ed una rappresentativa di noi italiani. Si trattava in realtà di una rivincita: una prima partita era stata disputata senza particolare solennità due o tre settimane prima, ed era stata vinta di larga misura dagli italiani contro una squadra anonima e raccogliticcia di minatori polacchi dei sobborghi.
A volte una partita di calcio può unire i popoli, segnare un prima e un dopo. Persino se quel prima è il punto più basso che l'uomo sia mai riuscito a concepire. E' assai celebre la "tregua di Natale" del 1914, raccontata anche dal film Joyeux Noël del 2005, quando nei pressi di Ypres i soldati inglesi e tedeschi si lasciarono andare a un brindisi in tempo di guerra, culminato in una partita in cui gli schieramenti non furono, per poche ore, quelli delle trincee.
Meno nota, invece, è la partita di calcio raccontata dal più importante testimone della Shoah, Primo Levi. Il chimico ebreo che, scampato fortunosamente ad Auschwitz, al rientro in Italia scrisse quel capolavoro che fu Se questo è un uomo: libro che per primo squarciò il silenzio su ciò che avveniva nei campi di sterminio; testimonianza cruda di ciò che in tanti non avevano voluto vedere. Era il dopoguerra, e in una casa editrice come l'Einaudi non c'era spazio per un racconto così poco edificante: troppo fresco il ricordo della guerra, poco conosciuta la verità dei lager.
Perché il nome di Primo Levi si affermasse ci volle qualche anno. Eppure, nel 1963, in un'Italia già proiettata nel futuro, lo scrittore torinese diede alle stampe La tregua, racconto del difficile ritorno degli italiani a seguito dell'invasione russa e dell'apertura dei cancelli di Auschwitz. Italo Calvino lo definì «libro del ritorno, Odissea dell'Europa tra guerra e pace»: in preda al caos burocratico, i sopravvissuti ci misero quasi un anno a tornare in patria, e dovettero affrontare un lungo viaggio tra Polonia, Ungheria, Romania e Russia. Anche se liberati, gli ex "prigionieri" continuavano a essere utilizzati dai russi come lavoratori, per venire poi dimenticati; cercavano una normalità ormai insperata; vivevano di espedienti, come cercare di ottenere cibo dalla vendita di oggetti dimenticati e posticci.
Ebbene, in quest'opera in cui in ogni "tappa" del ritorno l'autore trova spazio per raccontare un aneddoto o un episodio significativo (non a caso nel 1997 Francesco Rosi ne trasse un celebre film), viene raccontata persino una partita di calcio tra italiani e polacchi. Si trattava, in realtà, di una rivincita e, vista l'importanza dell'evento (festeggiare la fine del conflitto), i polacchi avevano scelto di organizzarsi meglio. La partita, scrive l'autore, «si svolgeva su di un campo di periferia piuttosto lontano da Bogucice, e i russi, per l'occasione, avevano concesso libera uscita all'intero campo».
Non manca un'attenta analisi degli avversari:
[...] I polacchi sfoderarono una squadra di prim'ordine: corse voce che alcuni giocatori, e fra questi il portiere, fossero stati fatti arrivare per l'occasione niente meno che da Varsavia, mentre gli italiani, ahimè, non erano in grado di fare altrettanto. Questo portiere era un portiere da incubo. Era uno spilungone biondo, dal viso emaciato, dal petto concavo e dalle movenze indolenti da apache […] Stava in porta con degnazione insolente, appoggiato a un montante come se al gioco assistesse soltanto, con aria insieme oltraggiata e oltraggiosa. Eppure, le poche volte che la palla veniva calciata in porta dagli italiani, lui era sempre sulla traiettoria, come per caso, pur senza mai fare un movimento brusco: stendeva un lunghissimo braccio, uno solo, che sembrava gli uscisse dal corpo come le corna di una chiocciola, e possedesse la stessa qualità invertebrata e appiccicosa. Ed ecco, la palla vi aderiva solidamente, perdendo tutta la sua forza viva: gli scivolava sul petto, poi giú lungo il corpo e la gamba, fino a terra. L'altra mano non la adoperò mai: la tenne ostentatamente in tasca per tutto l'incontro.
Con precisione da uomo di scienza, Levi elogia la bravura dei polacchi: e non potrebbe essere diversamente, se in campo vi era gente come lui, sopravvissuto per miracolo al campo nazista, di cui possiamo solo immaginare la condizione fisica.
Molto gustoso, invece, il racconto della partita, incentrato tutto sulla descrizione di un arbitro decisamente particolare.
Fu accanitamente disputata non solo fra le due squadre contendenti, ma fra entrambe queste e l'arbitro: poiché arbitro, ospite d'onore, titolare del palco delle Autorità, direttore di gara e segnalinee a un tempo era il capitano della NKVD, l'inconcreto ispettore delle cucine. […] Il suo comportamento era irritante, anzi estenuante, se giudicato col metro dei molti competenti presenti fra il pubblico; per altro verso, esilarante, e degno di un comico di gran scuola.
Forse Levi non era uno competente, però doveva aver sentito parlare parecchio di calcio a Torino, prima e dopo la guerra. Perché, si sa, parlare di arbitri è stato sempre il passatempo preferito di noi italiani. E dire che il regime lo considerava diverso…
Interrompeva il gioco continuamente, a casaccio, con sibili prepotenti, e con una sadica predilezione per i momenti in cui erano in corso azioni sotto porta; se i giocatori non gli davano retta (e smisero ben presto di dargli retta, perché le interruzioni erano troppo frequenti), scavalcava il parapetto del palco con le sue lunghe gambe stivalate, si cacciava nella mischia fischiando come un treno, e tanto faceva finché non riusciva a impadronirsi del pallone. Allora, a volte lo prendeva in mano, rigirandolo da tutte le parti con aria sospettosa, come se fosse stato una bomba inesplosa; altre volte, con gesti imperiosi, lo faceva mettere a terra in un determinato punto del terreno, poi si avvicinava poco soddisfatto, lo spostava di qualche centimetro, gli girava intorno a lungo meditabondo, e infine, come convinto di chissà che, faceva cenno di riprendere il gioco. Altre volte ancora, quando gli riusciva di avere il pallone fra i piedi, faceva allontanare tutti, e lo calciava in porta con tutta la forza che aveva: poi si volgeva radioso al pubblico che mugghiava di rabbia, e salutava a lungo stringendosi le mani al di sopra del capo come un pugile vittorioso. Era peraltro rigorosamente imparziale.
Al di là del protagonismo del direttore di gara, non ha difficoltà a riconoscere il merito di quella strana vittoria:
In queste condizioni, la partita (che fu meritatamente vinta dai polacchi) si trascinò per oltre due ore, fin verso le sei di sera; e si sarebbe protratta probabilmente fino a notte se fosse dipeso solo dal capitano, che non si preoccupava minimamente dell'orario, si comportava sul campo come il Padrone dopo Dio, e da quella sua malintesa funzione di direttore di gioco sembrava ricavare un divertimento folle e inesauribile.
Proprio perché folle, fuori dalla norma, quel divertimento dell'arbitro è la lezione che possiamo cogliere dall'episodio raccontato nella Tregua. Un momento di sospensione rispetto a quel passato indicibile, a quel presente indecifrabile. Quell'egoismo che aveva portato alla carneficina della guerra, per poche ore era diventato altruismo, voglia di stare in squadra e giocare a pallone.
Ma verso il tramonto il cielo si oscurò rapidamente, e quando caddero le prime gocce di pioggia fu fischiata la fine.
La pioggia divenne in breve un diluvio: Bogucice era lontana, ripari per via non ce n'erano, e ritornammo in baracca fradici. Il giorno dopo stavo male, di un male che rimase a lungo misterioso.
Come tutte le partite, tregue all'interno della nostra quotidianità, anche quella tra italiani e polacchi terminò: e la realtà tornò a ripresentarsi con tutta la sua durezza. Insieme al temporale notturno, il corpo di Primo Levi avrebbe subito le conseguenze di uno sforzo fisico, debilitato com'era dalle fatiche della detenzione.
Quando Italo Calvino scrisse di Italia Inghilterra senza averla vista - Il Catenaccio - Web Magazine Sportivo
Nell'immediato, quell'evento folle aveva prodotto una malattia respiratoria che lo mantenne a letto per giorni:
Non riuscivo più a respirare liberamente. Sembrava che nella corsa dei miei polmoni ci fosse un arresto, un dolore acutissimo, una puntura profonda, localizzata da qualche parte sopra lo stomaco, ma dietro, vicino alla schiena; e mi impediva di attingere aria oltre un certo segno.
Il corpo di Primo Levi non era in grado di sopportare senza conseguenze uno sforzo fisico; la sua mente non sarebbe stata in grado di resistere a lungo al peso di quel passato (morì suicida nel 1987). Eppure resta il fatto che lui, torinese tra gli italiani, avesse trovato la forza di giocare una partita di calcio con i suoi compagni di sventura. Anche se assurda e apparentemente insignificante, quel momento era da considerare una piccola tappa di ritorno a una normalità non più sperata.
Come per Ulisse (ricordato all'interno di Se questo è un uomo), il ritorno a casa doveva essere fatto di molte e faticose tappe.
Come "il canto di Ulisse", faticosamente raccontato a uno studente alsaziano dentro il lager, verrebbe da pensare che anche quella partita gli abbia fatto bene.
«Per un momento, ho dimenticato chi sono e dove sono», diceva nel testo del 1947. Sarà stato così per i tanti che festeggiavano la fine del conflitto in una strana partita tra italiani e polacchi. Sarà stato così per chi in poco tempo avrebbe ripreso ad andare in bici, a giocare a pallone, a partecipare alle Olimpiadi.
Anche questa è la lezione dello sport. E l'aveva colta persino il massimo testimone del genocidio, colui che ha scelto di ricordare in nome e per conto di chi non c'era più.
Andrea Sciretti
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