Dalla Svezia a Firenze, diventando una bandiera della Fiorentina e vincendo una Coppa Campioni e uno scudetto con il Milan. Ecco la storia di Kurt Hamrin, tra i grandi del calcio mondiale.
Può un uccellino trasformarsi in un monumento? Sì, può se il suo nome è Kurt Hamrin, che con la sua scomparsa entra di diritto tra gli immortali del calcio mondiale, tra le migliori ali destre della storia. Ma Hamrin non è stato una semplice ala, univa al miglior repertorio del ruolo, composto da velocità, cambio di passo, finte ubriacanti e dribbling irresistibili, la prolificità di un grandissimo centravanti. E questo lo rende ancora più unico nella storia del ruolo. Più di 300 gol nell'arco di una carriera ventennale, aperta e chiusa in Svezia ma con l'Italia al centro della sua vita sportiva. Iniziò a brillare giovanissimo in patria nell'AIK Stoccolma. Leggenda vuole che fu l'avvocato Agnelli, dopo averlo notato in una partita della nazionale svedese, a sceglierlo per la sua Juventus. Anche se un'altra versione narra che un italiano emigrato in Svezia per fare il minatore e tifoso dei bianconeri mandò una lettera all'Avvocato per segnalare le qualità della giovane ala. In ogni caso, nel 1956 Hamrin arrivò alla Juventus ma la sua prima stagione nel nostro campionato fu bersagliata dagli infortuni, al punto che gli fu affibbiato il poco simpatico soprannome "caviglia di vetro".La dirigenza bianconera decise così di cederlo in prestito al Padova. In più, stavano arrivando a Torino Omar Sivori e John Charles e il regolamento dell'epoca non prevedeva il posto in rosa per un altro straniero. Fu Nereo Rocco a volerlo al Padova. Il Paròn fu l'allenatore più importante della carriera di Hamrin, per convincerlo ad accettare la sua proposta, gli prospettò che avrebbe modellato la squadra per esaltare le sue qualità. Prima, però, il tecnico triestino curò i problemi fisici dell'attaccante svedese, portandolo da un ortopedico di fiducia che con un semplice plantare risolse i continui malanni alla caviglia. Stagione 1957/58, era il cosiddetto "Padova dei manzi", chiamato così perché la difesa era composta da quattro marcantoni: Blason, Pison, Azzini e Scagnellato. Con loro, soprattutto in casa, nel fortino dello stadio Appiani, non si passava mai. Era l'estasi del catenaccio. Un'etichetta ingiusta e riduttiva per il grande Rocco e per quel Padova che non era solo difesa. Davanti alla linea maginot agiva un raffinato e geniale regista, l'argentino Humberto Rosa, che innescava un super attacco composto da Brighenti e Hamrin. Kurt alla fine di quella stagione realizzò 20 reti (Brighenti 16) e trascinò i veneti ad un clamoroso terzo posto alle spalle di Juventus e Fiorentina. I problemi fisici erano ormai superati e Hamrin, dopo una stagione così brillante, era convinto che sarebbe rientrato alla Juventus.
#3 Ha ragione Vladimir Dimitrijevic: La vita è un pallone rotondo - Il Catenaccio - Web Magazine Sportivo
Ma la società piemontese non era del tutto convinta e cedette Hamrin per 100 milioni di lire alla Fiorentina. I gigliati avevano il grosso problema di sostituire il campionissimo Julinho, protagonista nel 1956 del primo scudetto, che tornava in Brasile affetto da saudade. Lajos Czeizler, il nuovo allenatore dei toscani e grandissimo intenditore di calcio, non aveva dubbi: Hamrin sarebbe stato l'uomo giusto. Lo svedese nell'estate del 1958 non arrivò subito a Firenze, aveva prima un appuntamento improrogabile con la sua nazionale: i mondiali da giocare in casa. La Svezia, pur avendo una signora squadra (Liedholm, Gren, Skoglund e Hamrin), non godeva certo dei favori del pronostico. Invece, gli scandinavi furono trascinati in finale proprio da Kurt che realizzò quattro gol in tre partite: una doppietta con cui diede l'estrema unzione a ciò che rimaneva della "grande Ungheria", il primo gol del 2 a 0 (rifilato a Yashin) che stese la temibile Russia nei quarti di finale e il colpo del ko, rappresentato dal meraviglioso gol del definitivo 3 a 1 contro i campioni uscenti della Germania Ovest (fatto dopo aver dribblato sei avversari) che permise agli svedesi di volare in finale. Nella partitissima Hamrin e compagni si trovarono davanti quello che da molti esperti è considerato il Brasile più forte di sempre, dove apparse al mondo per la prima volta Pelè. Apparse nel vero senso della parola perché quell'edizione, fu la prima trasmessa in televisione in tutto il pianeta. Particolare non da poco. La diffusione della tv rese il calcio ancora più popolare e regalò agli occhi di tutto il mondo le magie di Pelè. La Svezia perse, nonostante il vantaggio iniziale di Liedholm, una finale senza storia: 5 a 2 contro una squadra di marziani (oltre a Pelé, c'erano Garrincha, Zagallo, Didì e Vavà). Per Hamrin, però, arrivò la grandissima soddisfazione di essere inserito dalla stampa specializzata nella formazione ideale del torneo.
Una volta finito il mondiale iniziò per Kurt la sua carriera in viola. Il campione svedese non immaginava che Firenze sarebbe diventato casa sua e che qui sarebbe passato alla storia come "uccellino". Il soprannome, che ha accompagnato tutta la sua carriera, gli fu dato dal giornalista de "La Nazione" Beppe Pegolotti che un giorno, per esaltare le doti del campione, scrisse: «Hamrin, quando corre, sembra un uccellino che vola».
Intervista ad Alberto Orlando: "I miei gol storici contro la Turchia, con la Roma e la nazionale" - Il Catenaccio - Web Magazine Sportivo
Il 7 sulle spalle ereditato da Julinho non fu così un'eredità pesante. Il pubblico viola e tutta Firenze s'innamorarono subito del campione ma anche dell'uomo, mite, riservato, umile, ma sempre sorridente. Entrò nella storia della squadra gigliata come miglior marcatore di sempre, superato solo, molto anni dopo, da un certo Gabriel Omar Batistuta. Giocò nel periodo d'oro della Fiorentina, quello compreso tra i due unici scudetti con l'unico rammarico di non averne vinto nemmeno uno perché arrivò dopo il primo del 1956 e partì prima del secondo nel 1969. Ma in nove anni segnò valanghe di gol, sfiorò lo scudetto, arrivando due volte secondo, vinse due Coppe Italia e, soprattutto, una Coppa delle Coppe nel 1961 (prima squadra italiana a vincere un trofeo internazionale).
Lasciò la Fiorentina per andare al Milan dal suo vecchio maestro Nereo Rocco. Per alcuni a 33 anni era un giocatore sul viale del tramonto. Invece, la sua classe era sempre intatta e la fame di gol non si era placata.Con la casacca rossonera, si tolse le più grandi soddisfazioni: vinse uno scudetto e un'altra Coppa delle Coppe nel 1967/68, dove realizzò una doppietta nella finale contro l'Amburgo. L'anno dopo, nel 1969, l'apoteosi con la conquista della Coppa dei Campioni contro l'Ajax. Gli olandesi, alla loro prima finalissima, prima di diventare i maestri del calcio totale furono presi letteralmente a schiaffi dal maestro del catenaccio: Nereo Rocco. 4 a 1 il risultato per il Milan grazie alla tripletta di un superlativo Prati (che colpì anche un palo) e a un gol di Sormani. A chi dà del difensivista a Rocco, consigliamo di rileggere la linea d'attacco di quella squadra: Hamrin, Rivera, Sormani e Prati.
Dopo i trionfi milanesi, Kurt giocò a Napoli due stagioni per poi chiudere in Svezia nell'IFK Stoccolma a quasi quarant'anni.
Se dal cielo qualcuno fa le convocazioni, si deve trattare di un grande allenatore. In meno di un mese il calcio ha perso: Zagallo, Beckenbauer, Riva e Hamrin.
Mi permetto di aggiungere un ricordo personale. Ebbi la fortuna di conoscere Hamrin perché, insieme all'amico e storico di calcio Francesco Parigi dovevamo scrivere la sua biografia, progetto che purtroppo naufragò per problemi editoriali. Di lui conservo il ricordo di un uomo meraviglioso che, nonostante abbia giocato con e contro i più grandi della sua epoca (Pelé, Garrincha, Liedholm, Rivera, Cruijff e Yashin, solo per citare i più famosi), è sempre rimasto umilissimo.
Da tifoso della Fiorentina, piango quello che, secondo me, insieme ad Antognoni e Julinho è stato il più grande giocatore della squadra gigliata.
Commenti (0)