La storia di Don Paolo De Grandi, il sacerdote calciatore
Paolo De Grandi era nato il 6 giugno del 1970. Se il calcio fosse un vino, il 1970 sarebbe una grande annata e probabilmente l'anno di nascita ha influito sulla sua vita. Paolo, da ragazzo era una promessa delle giovanili del Verona, non mantenuta non per colpa sua ma del destino. Un incidente mandò a rotoli il suo futuro da calciatore ma, inaspettatamente, ne aprì un altro. Paolo, qualche anno dopo, incontrò Dio e diventò Don Paolo. Nella sua vita, però, rimase fissa la passione per il pallone, al punto che diventò uno strumento per portare tra la gente il messaggio del Vangelo. Può sembrare assurdo ma niente è più universale di un pallone da calcio e di un campo. Prendete dieci ragazzi che parlano dieci lingue diverse e non si sono mai conosciuti. Sicuramente non potranno dialogare ma se lanciate loro un pallone, ecco la sfera sarà la loro lingua. Don Paolo aveva capito questo e grazie al calcio univa bambini, ragazzi, adulti e anziani. Oppure magistrati, poliziotti, senza tetto, professori, medici, disoccupati ed ex campioni del mondo come Paolo Rossi (i due erano grandi amici) tutti a rincorrere un pallone e poi tutti insieme a messa dove Don Paolo nelle sue omelie non faceva sconti a nessuno ma faceva capire cos'era la vita. E sempre il pallone nella sua tragica fine, mentre giocava, sette anni fa, nel campo della sua parrocchia con i suoi ragazzi. Un colpo al cuore a soli 45 anni, una mitragliata (una strage di cuori) a tutti quelli che gli volevano bene. Ognuno di noi pensa a come vorrebbe morire e, probabilmente, Don Paolo, nelle sue accese discussioni con nostro Signore, avrà esternato il suo desiderio: su un campo di calcio.

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Come detto, Paolo De Grandi era stato una promessa del calcio italiano: mezzala talentuosa delle giovanili dell'Hellas Verona, un numero 10 classico dai piedi buoni. Erano i primi anni '80 ed il Verona non era una società qualsiasi, la coppia Bagnoli-Mascetti stava costruendo quella che sarebbe diventata la squadra che nel 1985 avrebbe regalato all'Italia il più bel miracolo calcistico della sua storia. Paolo si stava dunque affacciando al grande calcio dalla porta principale ed era inevitabile per lui annusare un futuro in serie A con la maglia dell'Hellas. Non era né un presuntuoso né, come tutti i ragazzi della sua età, un sognatore, tutti glielo dicevano che era bravo perché aveva gli ingredienti giusti per sfondare: corsa, tecnica, estro e il carattere giusto, non mollava mai, un numero 10 col cuore di un mediano. Correva veloce sul campo Paolo, veloce come la macchina dove era seduto una sera, quando uno schianto tremendo gli fece sfiorare la morte e spazzar via in un colpo solo i suoi sogni. Paolo, però, non era tipo da abbattersi. Quando i medici gli dissero che non avrebbe più potuto giocare a livelli agonistici, decise che se non avrebbe potuto fare il calciatore, il pallone avrebbe fatto lo stesso parte della sua vita. Iniziò subito ad allenare dei ragazzi più giovani di lui, tra questi svezzò un certo Damiano Tommasi poco più che bambino, che, qualche anno dopo, sarebbe arrivato in nazionale, avrebbe vinto uno scudetto con la Roma e, qualche decennio più in là, sarebbe pure diventato sindaco di Verona.
Prometteva da allenatore Paolo. Anche questa volta non lo diceva lui, lo dicevano gli altri. Conosceva il calcio, ma, soprattutto, sapeva capire gli uomini e i ragazzi. Aveva una corsia preferenziale che gli permetteva e gli avrebbe permesso in futuro di arrivare al cuore e alla testa della gente in tempi rapidissimi, senza giri di parole, anzi, a volte, solo con lo sguardo. Allenare poi era ancora più bello di giocare perchè gli permetteva di comunicare con gli altri. Solo che, allenando, si stava rendendo conto che, oltre al pallone, cresceva in lui, con forza inarrestabile, la voglia di fare qualcosa per il prossimo. Stava nascendo in lui la parola simbolo della sua vita: condivisione. Allenare poteva saziare questo suo nascente desiderio di aiutare il prossimo attraverso la condivisione, ma non bastava, voleva andare oltre. Non sapeva Paolo che la vita gli stava riservando un'altra sorpresa: una visione allargata e inaspettata della sua vocazione di allenatore. Era l'estate del 1988, Paolo, diventato da pochi giorni maggiorenne, partecipò come volontario a un viaggio a Lourdes come barelliere.Tra i suoi compagni d'avventura c'erano vari sacerdoti, tra questi Don Gino col quale, nel viaggio d'andata in treno, sentì un bisogno irrefrenabile di confessarsi. Fu quasi calamitato verso Don Gino. Certo, non era una novità, Paolo era credente e praticante e si confessava abitualmente, ma quella con Don Gino fu la confessione più importante della sua vita. Paolo tirò fuori tutto quello che aveva dentro, tutti i dubbi e le domande che abitavano dentro un ragazzo di 18 anni a cui la vita aveva dato e tolto tanto. Dopo ore e ore di chiacchierate con Don Gino, dopo che Paolo aveva manifestato al sacerdote questa sua voglia di aiutare i più bisognosi, il sacerdote gli pose una domanda secca e inaspettata: "Paolo, vuoi farti sacerdote?" Paolo traballò, in quegli stessi giorni si era innamorato di una ragazza e aveva iniziato a programmare un futuro con lei, pensando a costruire una famiglia. La domanda di Don Gino non se l'aspettava proprio. Lui che prima aveva sognato di fare il calciatore e poi l'allenatore non aveva mai pensato di diventare sacerdote. In breve tempo, Paolo capì che questa era l'unica strada per realizzare i suoi sogni e gli avrebbe permesso di dedicarsi totalmente agli altri.

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Don Gino lo mise ulteriormente alla prova, l'invitò in una missione in Bolivia. Qui Paolo toccò con mano la povertà. Dopo il viaggio non ebbe più dubbi e la domanda di Don Gino aveva già pronta la risposta. Paolo De Grandi entrò così in seminario e ne uscì Don Paolo. Dopo un periodo iniziale in un seminario a Verona, venne trasferito in un altro istituto religioso ad Arezzo, dove conobbe, dopo Don Gino, un altro uomo fondamentale per la sua crescita spirituale: l'allora Vescovo Gualtiero Bassetti, il futuro Cardinale e presidente della Conferenza Episcopale Italiana. Bassetti era, all'epoca, Vescovo di Arezzo e prese subito sotto la sua ala protettrice Don Paolo. Il vescovo riconobbe in quel giovane seminarista delle qualità rare e aiutò Don Paolo a tirarle fuori, seguendolo e consigliandolo nel difficile percorso che un giovane incontra prima di diventare sacerdote. Fu il Vescovo Bassetti, ad assegnare a Don Paolo, nel 2005 quando venne ordinato sacerdote, la parrocchia di Campoluci, una piccola frazione di Arezzo. La scelta non fu casuale, Campoluci era il posto ideale per mettere alla prova Don Paolo ed esaltare la sua voglia di mettersi in gioco per gli altri. Campoluci diventò il laboratorio di Don Paolo. Quello che Don Paolo fece in sedici anni di sacerdozio a Campoluci lascia ancora increduli i suoi parrocchiani e chi ha avuto la fortuna di conoscerlo. La giornata di Don Paolo non sembrava composta da 24 ore, tante e quali erano le iniziative nelle quali era coinvolto. Creava e portava a compimento progetti e iniziative, ma era sempre presente per i suoi fedeli. Trascinava la sua comunità, trasformando una piccola parrocchia in un centro di aggregazione per giovani e uomini di tutte le età con il calcio come password per aprire il cuore e la passione della gente. Dove prima c'erano solo delle erbacce, Don Paolo fece costruire prima un campo di calcio, poi uno di pallavolo e un tendone per accogliere ed organizzare feste e incontri. Grazie alla passione per il calcio arrivarono sul nuovo campo di Campoluci gli eroi del mundial spagnolo Paolo Rossi e Ciccio Graziani, che come, Don Paolo, vivevano in provincia di Arezzo. Soprattutto con Paolo Rossi nacque una grande amicizia. Scendevano spesso in Toscana per aggregarsi alle iniziative del sacerdote calciatore anche ex giocatori del Verona come Fanna, Sacchetti e Penzo.
E poi, come un illusionista che fa uscire sorprese dal suo cilindro, Don Paolo s'inventava sorprese per i suoi parrocchiani, soprattutto per quelli in maggiore difficoltà. Vacanze al mare o in montagne per quelli che non potevano permetterselo. Soprattutto in montagna il sacerdote riusciva a stupire tutti con messe improvvisate in alta quota dove, aprendo la sua valigetta portatile, estraeva il suo crocifisso componibile, un calice e un'ampollina e, facendo prendere tutti i presenti per mano, iniziava a condurre delle messe rimaste indelebili nella mente dei partecipanti.
Era tutto così bello per chi gli è stato vicino, forse troppo bello. Ma l'opera di Don Paolo continua e sul campo di Campoluci a quelli che giocavano a pallone con lui da bambini e ora sono uomini sembra ancora di sentire la sua voce. Un simpatico rimprovero per un passaggio sbagliato o per una rete mancata. Oppure la sua classica frase "Dammi la palla!", perché Don Paolo un difetto ce l'aveva: voleva fare sempre gol.
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