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Cagliari – 12 aprile 2020

Lo Stadio Amsicora di Cagliari parla nel giorno del cinquantenario dello scudetto, è un giorno particolare: è il 12 aprile 2020 e siamo in pieno lockdown.

 Le strade sono deserte. Quei pochi che girano possono essere fermati dalle Forze dell'Ordine e devono motivare la loro uscita.

Io m'annoio da morire. Di solito ospito un sacco di gente e mi diverto parecchio. A casa mia vengono a giocare a hockey su prato, ad allenarsi per l'atletica leggera, a nuotare (ospito pure una piscina) e a fare ginnastica artistica.

Vedo ragazzi tutto il giorno e a un vecchio come me, quasi centenario, servono per sentirsi vivo.

Ora, però, non viene più nessuno. Nemmeno i custodi a innaffiare il campo, perché mi hanno rifatto il manto in erba sintetica. Quella fu una delusione terribile, volevo smettere e lasciar perdere tutto.

"Buttatemi giù!" urlai, "rivoglio la mia erba". Un campo in erba sintetica per un impianto che aveva l'erba naturale è come una portesi al posto di un arto. Poi, ci si adatta a tutto e la vita va avanti lo stesso. Meglio l'erba sintetica che essere distrutto e sostituito da un centro commerciale.

Avevo un bellissimo manto erboso che mi fu regalato nel 1964 quando il Cagliari andò in serie A per la prima volta. Prima c'era la terra battuta e i giocatori avevano paura a fare la rovesciate perché potevano farsi male.

Sì, ero uno stadio di calcio, per un periodo sono stato uno degli stadi più famosi d'Italia. Il mio nome faceva paura agli avversari che quasi sempre ci lasciavano le penne. Negli ultimi quattro campionati della mia vita su centoventi partite solo due volte la squadra ospite vinse a casa nostra.

Ora sono un impianto polivalente che è una bellissima cosa perché, come dicevo prima, viene tanta gente a divertirsi, soprattutto i bambini.

Se devo essere sincero, però, preferivo essere uno stadio. Essere uno stadio di calcio è bellissimo. Mi avessero chiesto, quando mi costruirono negli anni '20, cosa vuoi essere? Avrei risposto uno stadio di calcio.

In origine ero una colonia penale. Nella vita i genitori non si scelgono, ma non me ne vergogno, anzi, ne vado fiero. Così come sono fiero di aver ospitato di tutto nel mio secolo di vita: dagli incontri di pugilato alle corride. Sì, anche una corrida. Credo di essere lo stadio al mondo dove sono state organizzate più attività.

Oggi, 12 aprile 2020, è una ricorrenza molto importante, perché, in fondo, un po' di merito di quello è successo cinquant'anni fa è anche mio, ma nessuno si è ricordato di portarmi un regalino.

Cinquant'anni fa il Cagliari vinse il suo primo e per ora unico scudetto, il primo vinto da una squadra del sud.

Oggi sono vuoto e davanti a me le vie e le piazze sono deserte. Cinquant'anni fa nemmeno tutto l'esercito italiano schierato avrebbero potuto bloccare la folla che mi stava entrando dentro, perché la gioia è come la rivoluzione, non si può fermare.

Intorno a me, le vie, le piazze, il lungomare, straboccavano di gente, perché non c'era solo Cagliari, nella città si era riversata tutta la Sardegna. Un fiume ininterrotto di bandiere rossoblù.

Io potevo ospitare al massimo 26mila spettatori, ma quel giorno ce n'erano almeno il doppio. Mi sembrava di soffocare, ma dovevo dare il meglio di me perché era la mia ultima recita. L'ultima ma la più importante. Ero considerato vecchio e piccolo. In effetti, il pubblico non entrava più ed era necessario un nuovo stadio. Durante la mia ultima esibizione, il mio erede e collega, lo stadio Sant'Elia, era già pronto per essere inaugurato da lì a poco.

Ogni tanto qualcuno mi passa vicino e mi guarda e si ricorda di quel 12 aprile del 1970. Soprattutto i nonni, quando portano i nipotini in piscina o a fare ginnastica. "Nonno, mi passi a prendere dopo?" chiedono i bambini.

"No, rimango qui non ti preoccupare. Ti aspetto volentieri", rispondono i nonni.

Io so perché rimangano: per rivivere le loro giornate sulle mie tribune, ripensano alla loro gioventù passata a inseguire un sogno dal 1964 al 1970.

Ho la presunzione di dire che io, per chi era giovane in quei sei anni e veniva allo stadio, ero e rimarrò un pezzo della loro vita. Per questo, mentre aspettano i nipotini seduti sulle mie tribune che ancora resistono – l'ingegner Donadio che mi progettò fece un gran bel lavoro – ogni tanto piangono.

Intanto, nel silenzio generale sento i titoli del telegiornale, provengono dai palazzi vicini. Dopo le ultime notizie sul virus che sta terrorizzando il mondo, lo speaker ricorda: "Cinquant'anni fa il Cagliari diventava campione d'Italia".

Sono passati cinquant'anni, non mi sento vecchio, mi sento solo.

Ripenso ai miei vecchi amici, agli eroi di quella giornata. Ripenso a Ricky, Gigi, Pierluigi, Giuseppe, Comunardo, Angelo, Ricciotti, Bobo…Me li immagino nelle loro case, con le proprie famiglie, mentre guardano le foto di quella giornata e la raccontano a nipoti e pronipoti. Qualcuno piange, pensando a chi non c'è più. A qualcuno di loro che si affaccia alla finestra e contempla il vuoto, reso ancora più surreale dal silenzio, all'improvviso sembra di sentire ancora il rumore di uno stadio pieno. E' solo un'illusione.

Uno stadio pieno ha un bellissimo rumore, rimbomba tutto, e io ero come un teatro con un'ottima acustica. Infatti, non tutti gli stadi sono uguali. In alcuni il tifo si disperde, in altri viene amplificato e i giocatori di casa si sentono leoni e quelli in trasferta delle prede. Ecco, il mio compito era quello: farli sentire dei leoni. Io, poi, ero uno stadio all'inglese, con le tribune in legno, e quando il pubblico batteva i piedi nasceva un rumore assordante. Mi sembra di sentirlo ancora: "Tatatata….Tatatata…. Tatatata…. Tatatata". Il rumore di 50mila piedi che all'unisono sbattono sulle tribune in legno. Più forte di mille tamburi, come 50mila mitragliatrici che caricavano i miei ragazzi e atterrivano gli avversari.

Mi chiamo Amsicora, anzi stadio Amsicora. A voler essere pignolo, dovevano chiamarmi Ampsicora, come l'eroe sardo che nel 215 a.C. si oppose ai Romani a cui si sono ispirati per battezzarmi.

Dentro di me coabitavano Ampsicora e i suoi soldati, i forzati della colonia penale che hanno vissuto nel terreno dove sono stato eretto e tutta una regione che tifava per il Cagliari.

Sono fiero del mio nome e della mia storia. Sono fiero della squadra che ho ospitato, la più incredibile che il calcio italiano abbia mai avuto e del suo allenatore, Manlio Scopigno. Con Manlio eravamo amici. Spesso rimaneva in solitudine a fumare una sigaretta sulla panchina. Gli piaceva anche camminare sul mio manto erboso, a volte si chinava e l'accarezzava. Era il suo modo per dirmi grazie.

Tratto da "1970. Il romanzo del Cagliari" di Domenico Ciotti

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