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AMARCORD. Di Stefano, le valigie e la gavetta nel River.

All'interno della collaborazione tra Civolandia e Il Catenaccio, pubblichiamo un pezzo amarcord a firma Gianfranco Civolani. Dentro ci sono Pesaola, il River e il basket. E il Bologna, ovviamente.

Già in passato sulla pagina di Civolandia abbiamo riproposto dei vecchi articoli del CIV. Sapendo di fare cosa gradita ai nostri lettori, lanciamo la rubrica "A modo mio" che, con cadenza settimanale, proporrà dei pezzi di Gianfranco. Si tratta di articoli tratti da Tuttosport, Guerin Sportivo e Corriere dello Sport Stadio e brani di alcuni suoi libri.
"A modo mio" parafrasando la celebre "My way" di Frank Sinatra, forse la canzone preferita dal CIV. "A modo mio" anche perché il CIV, lo sappiamo, era un uomo libero, ascoltava tutti ma faceva sempre a modo suo.
Iniziamo col ricordo di un grandissimo allenatore: Bruno Pesaola, non solo storico mister rossoblù ma vincitore di un leggendario scudetto con la Fiorentina, protagonista di grandi stagioni col Napoli.
L'articolo fu pubblicato dal Corriere dello Sport Stadio il 30 maggio del 2015 all'indomani della morte del Petisso, com'era soprannominato Pesaola.

Giulio Giusti

Di Stefano, le valigie e la gavetta nel River. 

di Gianfranco Civolani 

"Era arrivato a Bologna nell'anno settantadue e di nascosto si era acquattato all'Hotel Jolly perché attendeva che il novello Presidente Luciano Conti trovasse il modo di liquidare Oronzo Pugliese che in forza e con tanto di contratto in essere continuava a officiare sul campo e si rifiutava di togliere il disturbo. Ma con una ricca buonuscita il presidente convinse il riottoso Don Oronzo a levarsi dai piedi e dunque a fine luglio Bruno Pesaola – che qualche anno prima aveva vinto a Firenze e alla corte di Nello Baglini un insperato scudetto – cominciò a lavorare per i nuovi colori e sempre assistito dal fido assistente Cervellati che già era stato vice di Bernardini nei tempi luminosi del settimo scudetto e da quei giorni il Bologna prese a rianimarsi e per noi cronisti del tempo cominciarono le squisite godurie perché stare accanto tutti i giorni al Petisso (il Piccolo, detto all'argentina) ti divertiva e ti arricchiva. E si andava a giocare in Europa perché si arrivava spesso fra le prime sei o sette e perché – magari un po' rubacchiando – a metà degli anni settanta il Bologna vinse pure la seconda Coppa Italia della sua storia centenaria e non si poteva pensare in quei giorni a un Bologna che potesse prescindere da un personaggio così a tutto tondo e che adorava la città di Napoli e che per due volte abbandonò Bologna appunto per i fumi del Vesuvio, ma che evidentemente poi non sapeva resistere al richiamo di quei poker selvaggi consumati nel ritiro dello Chalet delle Rose e alla vigilia delle partite importanti, vigilie vissute tra mille volute del fumo di Bruno e del suo Presidente e del D.S Montanari e del gran nume della Virtus Basket, Gigi Porelli. E quelle conferenze del lunedì mattina alle ore dodici precise (il Petisso si alzava sempre tardi) e consumate in un bar di Via Marconi e animate tra frizzi e lazzi che ci godevamo prima di stendere servizi facili facili perché tutto sommato il vero giornalista era lui. E le sue battute fulminanti tipo quando alla vigilia di un match annunciò che il Bologna avrebbe fatto una partita d'attacco e poi sul campo il Bologna non passò mai la metà campo e lui se la cavò brillantemente dicendo: «Embè, mi hanno rubato l'idea».

Sapeva leggere la partita come pochi e il mestiere l'aveva imparato quando aveva sedici anni e giocava con il River Plate e lui portava la valigia a quei campionissimi che erano Pedernera, Labruna e il ventenne Alfredo Di Stefano. Poi era arrivato giovanissimo alla

Roma e presto dirottato al Novara (e là conobbe e poi sposò la bella Miss Novara) e quindi approdò al Napoli di Achille Lauro. Lì prima giocando in regia e poi allenando con grande profitto e quindi spostandosi a Firenze e appunto vincendo alla grande e lanciando in orbita giocatori inediti come Superchi e il battitore Ferrante e anche il funambolico Luciano Chiarugi e il concretissimo Rizzo detto Fru Fru e il redivivo Maraschi, già fallito a Bologna e brillantemente risorto con il Petisso. Ma quasi subito si trasferì e si inventò un mestiere finto di floricoltore, lui che non sapeva distinguere un giglio da una viola del pensiero. E la chiamata del Bologna e altri anni corposi prima di un rientro definitivo a Napoli per gli ultimi fuochi e un finale quasi fra le quinte quando si mise ad allenare il Campania. Una delle ultime gag bolognesi e bologniste la regalò a noi giovani che spesse pendevamo dalle sue labbra quando gli chiedemmo se dopo una bruciante sconfitta contro la Juve lui certe scelte molto opinabili le avrebbe ragionevolmente rifatte. E lui – sfumacchiando come un esercito di turchi – disse semplicemente: « No di certo perché purtroppo quelle scelte le ho già fatte».

A Napoli e in tarda età faceva l'opinionista ed era ancora così ascoltato e riverito. E la sera guai se non andava a farsi una magnata. Ma l'adorata moglie Ornella se n'era andata da questo mondo e il figlio Diego – eccellente uomo di lettere e di teatro – deambulava ormai per ogni dove. E poi le gambe del Petisso non reggevano più. Quando Eraldo Pecci e Franco Colomba, i due giocatori che lui aveva fatto debuttare, lo andarono a trovare, si accorsero che stava in carrozzina e che era costretto a vivere in mesta solitudine. «Ma la testa e ancora di una lucidità impressionate» mi raccontò Colomba al ritorno da quella struggente visita alla quasi memoria. Per quel che mi riguarda è morto uno dei migliori allenatori del Bologna di sempre e vi prego di considerare che da oltre sessant'anni gli allenatori del Bologna li ho sempre seguiti sul campo e anche nei piccoli simposi che si usavano una volta."

Questo articolo rientra nel progetto di collaborazione tra Il Catenaccio e Civolandia.

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